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FONDAZIONE FRANCESCO VENTORINO: La scuola? Una carovana in cui camminare «così come sei»

― 30 Settembre 2021

Ufficio Stampa, CdO Opere Educative, 30.09.21

La Fondazione Francesco Ventorino avvia il nuovo anno scolastico con una lettera aperta della Preside, Professoressa Michela D’Oro, pubblicata sulla homepage del sito istituzionale.  A partire da un’immagine del fotografo McCurry, la Dirigente formula delle riflessioni che mettono in luce questioni e domande di stringente attualità.

In un incontro degli insegnanti con don Pierluigi Banna, nipote del sacerdote a cui la Fondazione e l’Istituto sono intitolati, tali questioni e domande sono messe a tema e osservate nella loro profondità: è possibile guardare “con tenerezza” allo smarrimento e alla paura che caratterizzano il nostro tempo?

Diamo spazio ad un articolo del Professor Pietro Cagni, insegnante di Lettere nella Scuola Secondaria di Primo Grado dell’Istituto, che riassume i contenuti salienti dell’incontro.

 

La scuola? Una carovana in cui camminare «così come sei»

Poteva avvenire, la ripresa di questo anno scolastico, aggirando le questioni più profonde che segnano il nostro presente. Di fronte alle immagini e ai drammatici fatti storici a cui abbiamo assistito nei notiziari, e di fronte alle incertezze e alle paure che la pandemia ci ha consegnato, siamo spesso rimasti attoniti, dominati da un senso di assoluta impotenza di fronte a circostanze ben più grandi di noi. Ecco, l’inizio della scuola avrebbe potuto indurci a guardare altrove, distogliendo lo sguardo da ciò che, invece,incide in profondità l’esperienza di ciascuno di noi. Si sarebbe trattato, però, di una tregua momentanea e in ultima istanza illusoria, di una vera e propria menzogna verso noi stessi e gli altri. Con una lettera apertala prof.ssa Michela D’Oro, preside dell’Istituto, ha voluto porre a tutta la comunità scolastica un richiamo semplice e radicale, individuando l’unico punto di partenza davvero adeguato al frangente che stiamo vivendo: le parole nitide e accorate diffuse sui social, scaturite attorno a una stupenda fotografia di Steve McCurry, hanno invitatogli studenti, i genitori, i professori e i collaboratori della scuola a guardare in faccia le ferite e i punti scoperti che ciascuno di noi si trova addosso. Si è trattato di un invito inaspettato a desiderare che ogni nostra giornata non abbia «il respiro della routine e della scontatezza, ma dell’avventura della ricerca del senso», come testimonia lo sguardo dei bambini ritratti da McCurry; una provocazione “scomoda”che, senza negare le difficoltà, ha suggerito un metodo, quello di puntare sul desiderio più profondo che ci costituisce e che affiora in qualsiasi situazione, anche e soprattutto in quelle più improbabili, difficili e assurde: sempre, infatti, riaprendo le nostre domande e mettendoci in gioco, possiamo «ricominciare con lo sguardo stupito e interessato del bimbo della foto».

Per non meno di questa grande sfida quotidiana, a pochi giorni dall’arrivo degli studenti in classe, in un caldo sabato mattina catanese tutto il personale dell’Istituto Ventorino si è ritrovato in dialogo con don Pierluigi Banna nel teatro della scuola. La natura, la cifra della lezione e del dibattito erano tutte contenute nelle prime battute della conversazione, ossia dal ricordo personale, semplice e prezioso, dei pranzi dopo la scuola con quel Monsignor Ventorino a cui l’Istituto è dedicato e che aveva intravisto nel suo giovanissimo nipote i segni della vocazione sacerdotale. A essere ravvivata con decisione, durante quei dialoghi attorno alla tavola, non era l’esattezza di una dottrina o la coerenza di una indefettibile ideologia, ma un’appassionata attenzione al presente, una passione alla vita di ciascuno, alle storie, alle difficoltà, agli interessi di chi si incontrava lungo il cammino.

Così, il metodo di don Pigi (anche per lui, come già per suo zio don Ciccio Ventorino, il nome anagrafico ha lasciato il posto a un soprannome ben più affettivo e caloroso) è rimasto lo stesso, e richiede innanzitutto una lettura dura, onesta e senza sconti del nostro presente.

Il suo affondo iniziale restituisce la nitida consapevolezza delle grandi dinamiche del contesto culturale e sociale attuale e delle conseguenze causate dalla pandemia che ha investito non soltanto il nostro corpo ma i rapporti, gli affetti e le relazioni, scatenando la paura, l’ansia e il timore. Nel ricostruire la gravità della situazione affiorano, con discrezione, nomi, persone, e storie particolari: dietro le definizioni generali c’è, evidentemente, tutta l’esperienza che don Pigi ha raccolto sul campo. Prete, insegnante, ed educatore, ha registrato “dal vivo” la fragilità del vivere, l’incertezza che segna in profondità non l’entità astratta dell’“uomo di oggi” ma la gente, i bambini, i più giovani, le loro famiglie, la loro realtà. Don Pigi tratteggia con struggimento paterno lo smarrimento di tanti, ma non lascia spazio a un vacuo sentimentalismo: su questi presupposti, ben familiari a tutti e dietro cui, in fondo, ci si può nascondere e giustificare, avviene il primo, inaspettato e fondamentale snodo del discorso: il disagio, la paura e l’incertezza non sono, afferma don Pigi, «una falla da tappare», ma i tratti più immediati ed evidenti dell’«espressione di sé». Avvilita, appesantita e confusa, questa umanità «non è un problema da censurare, ma «da guardare con tenerezza».

Don Pigi sa di aprire uno scenario nuovo e, a prima impressione, fortemente destabilizzante. Con diffidenza potremmo chiederci come la paura e il timore possono essere così preziose da non dover essere scartate, buttate via il prima possibile… E senza applicare risposte standard (quelle sì che sarebbero difficili da accettare), don Pigi descrive un’ipotesi diversa e desiderabile: che la difficoltà, «se c’è, sia per un bene. Anche se ora non lo sappiamo. Prima o poi capiremo perché c’è». La scuola, è questa la grande sfida che don Pigi ha lanciato ai presenti, può costituire il luogo in cui ciascuno «possa mettere in gioco se stesso così come è, perché tutto è utile», un luogo in cui poter dire «tu, così come sei, non sei inutile, non devi censurare niente di te».

Certo, «non tutti i luoghi hanno la capacità di tirare fuori l’umanità così com’è», ma don Pigi subito rilancia e impedisce di sentirsi “a posto”, additando il pericolo di percepirsi come gli unici depositari della bellezza e della verità, ossia come i soli «reduci» di un mondo ormai definitivamente perduto. Una scuola simile diventerebbe ben presto una «scuola-esilio», capace solo di intonare il lamento di un «controcanto al mondo, che però non aiuta ad amare se stessi e a conoscere il mondo». Nemmeno la «scuola-monastero» rappresenta una convincente alternativa, perché una fortezza dotata di tutti gli optional, una prigione dorata e piena di indiscutibili vantaggi, rappresenta ancora «un’opzione in ritirata, in attesa che i barbari vadano via». Per don Pigi si tratta invece di riscoprire, di fronte alle sfide del contesto attuale, la verità della definizione che don Giussani ripropose nel suo Rischio educativo, mutuandola dal filosofo tedesco Jungmann: che l’educazione sia l’«introduzione alla realtà totale», questa la sfida su cui lui, come già don Ciccio, ha riconosciuto come l’unica adeguata.

Una «scuola-carovana», allora, che spalanca«l’avventura di un percorso avviato verso una meta: nella carovana si è insieme, e non vuol dire che tutti arrivano, ma chi arriva porta con sé chi non arriva. Nulla viene perso, chi cade lungo il cammino, chi non ce la fa, la carovana lo porta. Ognuno ha un compito, nessuno è spettatore, ognuno è necessario e insostituibile». In una simile compagnia «tutto, anche la fatica, la difficoltà, l’ansia e la paura, ha un’ipotesi positiva». Sembra quasi una riscrittura, una precisazione ora necessaria a margine alle parole di Italo Calvino e Alessandro d’Avenia: quel che serve, adesso, più che trovare «un punto nell’inferno che non è inferno», è scoprire un luogo in cui persino “l’inferno” possa trovare spazio, e così possa essere guardato, amato, cambiato di segno.

Tremano i polsi a sentire queste parole, che descrivono così bene gli atteggiamenti che tanto spesso mettiamo in campo di fronte alle difficoltà quotidiane. A volte la meta descritta da don Pigi pare davvero irraggiungibile. Occorre ricordare ciò che è accaduto e, poi, mettersi a lavoro: ricordare, innanzitutto, i tanti fatti accaduti dall’inizio della pandemia, che dimostrano come una speranza e una vittoria sono possibili e si introducono inaspettatamente nelle pieghe del lavoro quotidiano, e immaginare con nuova creatività e slancio le attività di accoglienza con cui dare il benvenuto agli studenti. Per mettere alla prova le parole di don Pigi, dunque, le prime due settimane di scuola non hanno previsto lezioni “tradizionali”… a partire da un film, dalle imprese olimpiche e dalle intuizioni degli insegnanti i primi giorni di scuola sono stati scanditi da attività e proposte laboratoriali che hanno messo in gioco gli studenti, attraverso gli strumenti delle diverse materie, che si sono scoperti parte di una comunità più grande, in cui ciascuno può vivere fino in fondo la propria umanità, senza tralasciarne neppure un pezzetto. La conclusione di questo percorso è stata epica: una mattina agganciati con i moschettoni alle funi e alle carrucole sugli alberi più alti del Parco Avventura dell’Etna, per scoprire come essere «carovana, cioè una compagnia in cammino, in cui anche il fallimento non è inutile e ci mette in moto verso lo scopo». E questo è solo l’inizio: l’anno scolastico ci attende”.

Pietro Cagni,
Insegnante di Lettere, Scuola Secondaria di Primo Grado, Istituto Francesco Ventorino

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