Davide Brullo, ilGiornale.it, 08.12.21
“Nel 1919 era riuscito a comprarsi una villa a Oswalds, nei pressi di Canterbury. Da poco, aveva raggiunto una certa sicurezza economica, non con i libri più belli; poco incline ai crismi della vita sociale inglese, soffriva di gotta, il viso irto di rughe e lo sguardo fermo, di chi ha valicato molte vite. Da ragazzo, nelle rare fotografie, piuttosto, ha gli occhi accesi, terrorizzati. Sarà che era rimasto orfano a undici anni e che un’insana fame, l’estro di chi è solo al mondo, lo obbligava agli estremismi. Preferì viaggiare per il globo; nato in una provincia dell’Ucraina russa, cresciuto tra Varsavia e Cracovia, come seconda lingua preferiva il francese, l’inglese lo parlava in modo involuto, lento, da straniero. Sulla terraferma, sempre, gli pareva di affogare.
Fu Hugh Walpole, in ogni caso, a propiziare l’incontro tra Joseph Conrad e T. E. Lawrence. Con Walpole, poligrafo, nato in Nuova Zelanda, affascinato dalla Rivoluzione russa (che aveva seguito sul posto), uno zelante ammiratore, Conrad si sentiva a suo agio. «Tu dici che ho subito l’influenza formativa di Madame Bovary…», gli scrive, nel 1918, per ribattere, «Flaubert… lo ritenni meraviglioso. Non credo di aver imparato nulla da lui». L’incontro accadde in luglio, era il 1920: Conrad era già Conrad, il rivoluzionario della letteratura inglese, Lawrence, per tutti, era «Lawrence d’Arabia»; aveva scritto la prima, affrettata bozza dei Sette pilastri della saggezza e Winston Churchill era pronto a offrirgli un posto di rilievo presso il Colonial Office con il compito di risolvere la questione mediorientale. Lawrence, dal canto suo, mirava solo a disintegrarsi. Amava Conrad, quello sì, «ha reso la nostra prosa finalmente inquietante: ogni suo paragrafo (dacché non scrive frasi, ma paragrafi) si sviluppa a ondate, come il riverbero di una campana, dopo che si è bloccata»”.