C. Esposito, L’Osservatore Romano, 25 febbraio 2020
C’è un grande paradosso che accompagna dall’inizio la storia del nichilismo, e che oggi vediamo più chiaramente nel suo compimento: il vero senso della “morte di Dio” — la formula con cui da Nietzsche in poi si allude alla crisi irreversibile di ogni trascendenza, ontologica, religiosa o morale — risiede nella morte di “io”. L’essere che io sono non va più pensato come un “dato” oggettivo, ma come il “caso” soggettivo di un processo evolutivo impersonale, un momento di transito provvisorio: quello che il nichilismo orientale, ispirato al buddismo, chiamerebbe la “non-permanenza” o la “non-esistenza” del sé individuale. Momenti accidentali nel flusso necessario della natura: ecco cosa sarebbero gli esseri umani, e non è affatto detto che la mancanza di un senso personale sia una perdita. Secondo alcuni potrebbe anche essere una liberazione, la possibilità di vivere la vita per quello che è, nel suo nudo accadere — e basta.
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